16 febbraio 2002.

Piove.
Arrivo in officina, e lei è la.
Grande, nera e grigia. Tre valigioni immensi.
Fremo, e parto. Da Milano a Cesano Maderno è poco più di un quarto d’ora di superstrada, per di più sotto la pioggia, cosa vuoi capire di una moto nuova?
Sento l’odore del motore che, caldo, fa evaporare la pioggia. Mi ricordo quell’odore, il ticchettare delle marmitte, l’acqua fredda sul mio cuore caldo.
Mangio, nervosamente, so che lei è la. E non c’è niente da fare, mi chiama.
Mi metto la roba più antiacqua che ho, e vado verso il lago. Arrivo a Bellagio, e risalgo verso Civenna.
Poco prima del Ghisallo comincia a fioccare. Neve sull’asfalto bagnato, e non poteva esserci un battesimo più gustoso e significativo.

28 giugno 2016.

C’è il sole, il Lambro scorre felice e un po’ puzzolente, sovraccarico del benessere delle zone che attraversa.
Lo stesso fiume che nasce a 2 km da Civenna.
Nel gruppo di capannoni poco densamente utilizzati, scenario perfetto per l’arrivo di una banda di zombie, ecco il deposito delle moto che vanno via dall’Italia.
Ho fatto il trapasso, e adesso prenderò i miei soldi.
Vittorio li conta, mi invita a fare altrettanto.
Arrotolo il mio gruzzoletto sudaticcio e gli chiedo se posso andare a salutare la mia moto, e con uno sguardo un po’ strano acconsente.
Esco, lei è sul piazzale pronta per essere lavata, l’addetto pronto con la canna in mano.
Dico “ciao” e lui risponde “ciao”.
Non lo cago di striscio, uno che non capisce neanche che tra lui e lei non può esserci storia.
Mi avvicino, appoggio il petto sul serbatoio e accarezzo le travi del telaio.
14 anni, 172.000 km insieme.
In mezzo un fidanzamento, un matrimonio, una casa insieme. Un bambino, un trasloco e un’altra casa, e un altro figlio.
Cinque posti di lavoro diversi.
Tutta l’Italia e mezza Europa, 4 incidenti.
Km con il sole, la neve, il fango, la pioggia, la sabbia. In autostrada e nei paesini, sul crinale di una montagna e su un battello. Chilometri e anni, anni e chilometri.
Milioni di curve, moto incontrate, amici conosciuti e persi.
E non ti vedrò mai più, per la mia vita. 14 anni su 42 fa un terzo giusto giusto.
Sento qualcosa che si muove tra lo stomaco e la gola, vorrei poter essere solo con te per singhiozzare e tirare fuori questo sentimento, vorrei poter avere il tempo e non avere spettatori.
Vorrei salutarti come si deve, prima di chiudere il coperchio e buttare badili di terra su di te.
Ma devo andare, sei solo una moto.
Un fottutissimo pezzo di metallo, plastica, gomma.
Senza cuore, senza anima, come un ferro da stiro o una lavatrice.
Vorrei crederlo, essere razionale e freddo.
Ma il magone rimane lì.
Domani mattina non aprirò il box, portandoti fuori e accendendoti come ho fatto tutte le mattine.
Non ci sarai più, e spero che qualcuno, da qualche parte dell’Europa, ti ami come ti ho amato io.
Addio, Schwarzer Adler.